lunedì 21 luglio 2008

È ‘bbulat l’ocedduzz e nun s’è ricot’ cchiù…

È ‘bbulat l’ocedduzz e nun s’è ricot’ cchiù…

Quartiere periferico del centro storico di un paesino calabro.
Anziani e bambini cantano a squarciagola canzoni popolari alle quali hanno inventato le parole che più si addicevano al loro stato d’animo.

“È ‘bbulat l’ocedduzz e nun s’è ricot’ cchiù…” canta un nonnetto che ha di certo superato i novanta anni a che abita, dopo la morte dell’amata moglie (l’uccellino che non è più tornato), solo nello stesso quartiere della casa dei mie bisnonni.
Entro nella casa che ha visto nascere i miei prozii e mi sento catapultata indietro di sessanta, forse settant’anni, osservo il mobilio austero e forte, apro gli armadi e annuso l’odore delle sottovesti sgualcite di seta, delle giacche di lana e delle scatole contenenti tovaglie ricamate a mano, scavo ancora nei ricordi del passato e mi spunta un portadocumenti di cuoio, che ha resistito all’usura del tempo e allo scorrere degli anni: “PENSIONE DI GUERRA”.
Le pagine ingiallite e spesse riportano alla memoria i racconti di mio padre, “mio nonno ha fatto la guerra in Libia”, mi diceva, suscitandomi nei tempi dell’asilo le più vive fantasie su quest’uomo che non ho mai conosciuto se non in una foto, che immaginavo baldo e giovane mentre imbracciava un fucile. Ed è anche tramite la voce di mio padre che sono venuta a conoscenza della sua passione politica. Nel dopoguerra appiccicava sui muri di casa sua manifesti “sovversivi”, raffiguranti falce e martello, che pagava con risse dalle quali una volta ne uscì ferito, mi pare.
Esco fuori dal mio viaggio mentale e noto un cestino di legno intagliato, “fatt ‘a man e ‘ccu tanta pacenza”, un minuzioso affresco di vigneti e case di campagna.
Sì, mio nonno era un artista. Uomini come lui non ci sono più.

È ‘bbulat l’ocedduzz e nun s’è ricot’ cchiù…

sabato 19 luglio 2008

Com mammeta t'ha fatta...

Molti dicono che io somigli a mia madre in modo impressionante.
Quando prendo in mano una sua foto, lo noto anch’io.
Però, io, non sono lentigginosa. Ho la pelle d’un biancore unico, che abbandono leggermente d’estate quando passo al massimo sei, sette giornate al mare.
Non amo particolarmente il mare, odio gli sguardi della gente che si posano sul mio corpo da bambina. E poi l’acqua è viscida, le pietre del fondale verdi e diversi rivoli di scarichi, “non tossici” secondo le autorità locali, mi rivoltano lo stomaco.
Eppure, sono fortunata.
Pochi capiscono l’importanza della nostra terra, piegata al volere di soldi e modellata secondo i gusti dei potenti. Seduta sulla riva, stesa sul mio asciugamano da due lire, osservo la montagna. Che binomio fantastico!
Non tutti conoscono la sensazione di perdersi in uno di quei boschi dagli alberi dai tronchi immensi che hanno passato in silenzio i loro secoli, che vedono compiere crimini dalla natura che cacciano laddove, a caratteri cubitali, è scritto “VIETATA LA CACCIA”.
Il gusto godurioso, sublime e delicato dei pinoli raccolti dalle pigne cascate a terra, le mani appiccicose e nere, il sasso necessario per spaccare il guscio del seme e mangiarne uno, poi un altro e infine altri cento… Ricordi vivi e nitidi della mia prima infanzia.

Calimera


“Tutti mi vogliono male solo perché sono piccola e Calabrese!”

Ahi, ahi, ahi, piccola Calimera calabrese…
Nelle mie vite precedenti cos’ho combinato di così grave da meritare la nascita in una terra desolata come la Calabria?

Magari “Ava, come lava!” sponsorizza anche me, voi che dite?



Sono nata in Calabria quindici, forse sedici anni fa, in provincia e per di più da due genitori di classe medio-bassa.
La mia è una terra di uomini e donne con le braccia scure, dalla pelle inaridita dal sole e dalle ascelle grondanti di sudore.
Qui la gente stringe i denti e tira avanti, truffa, graffia, ringhia ma non cede mai.
Non è una teoria razziale, tu, terrone, e tu, polentone, sei pur sempre un homo sapiens sapiens, ma è quello che percepisco quando origlio i discorsi della gente per la strada. Non posso certo biasimarli, anch’io sono così.
Forse c’è un gene che trasmette la calabresità, quella cocciutaggine egoista che non mi ha mai abbandonata, o forse nel nostro cervello c’è qualche strato cerebrale dove secoli e secoli di rabbia sono così radicati, che oramai trasmetteremo nei secoli e nei secoli la nostra unicità.